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Anche se ormai si considera il binomio “processo diagnostico e classificazione” fondamentale per la ricerca e l’intervento nell'autismo (Cohen e Volkmar, 2004), la mancanza di evidenze sistematiche nell’anamnesi e nei molti esami clinici solitamente richiesti a fini diagnostici, ha reso la classificazione nosologica1 l'unico criterio eletto per la diagnosi e successivamente per l’intervento. La mancanza di una teoria generale che spieghi questo disturbo, ed una diffusa confusione nell'eziopatogenesi, producono ancora molte ipotesi, troppe per risultare utili al processo diagnostico.
“Dato che la diagnosi di autismo è sempre basata soprattutto sulle peculiarità di comportamento del bambino, poiché queste sono in realtà le uniche osservabili, riteniamo che occorra studiare questo comportamento prima di trarre conclusioni sulla condizione interna del bambino, il cui prodotto è il comportamento anormale.” (Tinbergen, 1989)
Le considerazioni che riporteremo in seguito, proprio perché tra loro così lontane nel tempo, e così simili nel contenuto, evidenziano che, non solo la spiegazione sull’eziologia del disturbo è rimasta ancora fonte di divisioni nel mondo della psicologia, ma anche come, a livello nosologico descrittivo, non sia stato facile arrivare a definire dei criteri condivisi. La classificazione a livello nosografico alla quale oggi si fa riferimento, come vedremo, è basata più sulle necessità e sulle scelte di politica sociale effettuate dal governo degli Stati Uniti, che sull’accordo tra psichiatri e psicologi. Infatti, a partire dagli anni ’70, il sistema sanitario americano ha previsto per i soggetti autistici la presa in carico totale della terapia, tramite il programma TEACCH2, scelta questa assolutamente straordinaria per il modello americano di non intervento. L'esigenza di stabilire chi e perché potesse rientrare nella categoria dei pazienti in carico divenne perciò prioritaria, e, di conseguenza, diventò essenziale la disponibilità di criteri diagnostici certi e condivisi dal sistema sanitario, e conosciuti dai suoi dirigenti. Per dirla con Tinbergen (1989):
“Dato che il termine ‘autistico’ è usato con significati diversi, dobbiamo prima di tutto stabilire di quali bambini ci occuperemo. Tuttavia, per varie ragioni, non possiamo essere molto precisi, perché:
- la sindrome non si manifesta con la stessa gravità in tutti i bambini;
- l’autismo può assumere forme diverse;
- i sintomi (cioè il comportamento osservabile) cambiano via via che il bambino cresce;
- esiste inoltre la difficoltà, pratica che ancora oggi molti medici, specialisti compresi, non prendono in considerazione gli stessi aspetti del comportamento anomalo del bambino e perciò non sempre arrivano alla stessa diagnosi.
Ciò è stato mostrato in modo lampante da Rimland (1971), il quale, considerate alcune centinaia di bambini, ha messo a confronto le diagnosi dei medici che, l’uno, indipendentemente dall’altro, li avevano visitati .”
La variabilità interindividuale tra autistici e la complessità della sintomatologia, rendono particolarmente difficile la definizione di un unico modello diagnostico operativo ancora oggi. Per questo motivo, Gillberg e Coleman (2003) utilizzarono la forma plurale 'sindromi autistiche', e Surian (2002) mise in discussione la correttezza della diagnosi di autismo, che potrebbe essere sostituita dalla rilevazione di tratti autistici.
Se da un ‘clinico’ che sia attento al singolo ed all’unicità del fenomeno umano, la classificazione può essere considerata iatrogena, cioè indice di stigmatizzazione e di etichettamento, di superficialità e generalizzazione, tanto più rischia di esserlo per un disturbo o meglio ‘sindrome’ come quella autistica. Il termine sindrome può essere inteso generalmente come “un complesso di sintomi che, caratterizzando un particolare stato morboso, ne rendono possibile la diagnosi”. Nel caso dell’autismo è più corretto ricordare che: “In medicina, il termine “sindrome” significa che tutta una serie di patologie completamente differenti può arrivare all’espressione clinica servendosi di una via con una parte finale comune, cosicché assomigliano le une alle altre e possono essere confuse le une con le altre.” (Gillberg, Coleman, 2003).
Ma le difficoltà nella classificazione non devono oscurare i suoi vantaggi. Cantwell
(1996) descrisse molto dettagliatamente tali vantaggi: “I sistemi di classificazione esistono per svariati motivi, ma il loro scopo principale è indubbiamente favorire la comunicazione. Questa è, infatti, essenziale per conferire attendibilità e validità ai risultati delle ricerche, consentendo la condivisione delle conoscenze e alimentando una graduale crescita del sapere. Per i clinici e per gli educatori, la classificazione è di aiuto nel guidare gli esperti nella scelta dei trattamenti per ciascun individuo, nonché nella valutazione dei benefici di un determinato intervento per gruppi di soggetti affetti da problemi analoghi.”
Se la classificazione favorisce la comunicazione e la condivisione delle conoscenze, alimentando una graduale crescita del sapere, ed aiuta gli esperti nella scelta dei trattamenti (che nell’autismo devono essere precoci perché il disturbo ha un'insorgenza precoce), allora anche i ‘clinici’ devono ‘obtorto collo’ diventare agenti attivi nella loro utilizzazione e trasformazione.
Il merito maggiore di Kanner (1943), e lo si deve riconoscere per la serietà e l’attenzione con la quale ha condotto, da pioniere, il suo lavoro, è di aver evidenziato le nove3 caratteristiche fondamentali presenti nell’elenco del suo primo articolo sull’autismo4, che sono utilizzate ancora oggi nella rappresentazione classica di un caso tipico di autismo ‘paradigmatico’ o sindrome autistica. Ricordiamo che, sempre nel 1956, lo stesso Eisenberg e Kanner ridussero i criteri diagnostici a due caratteristiche essenziali:
“isolamento estremo e comportamento routinario ed avversione ai cambiamenti, con esordio durante i primi due anni di vita”, considerandoli sufficienti per una diagnosi e contribuendo ad accrescere la confusione già esistente. L’autismo appare tuttora, come sosteneva Kanner, una costellazione specifica di sintomi, deficit selettivi e abilità preservate. Alcune di queste caratteristiche hanno trovato conferma nelle indagini successive e sono ora presenti nei criteri diagnostici internazionali. Altre sono considerate ora disturbi associati all’autismo, ma non centrali nella diagnosi. Altre caratteristiche, infine, si sono dimostrate non associate all'autismo. Ad esempio, se per lungo tempo si è pensato che la maggior parte dei bambini avessero buone capacità cognitive, oggi è stabilito che più del 70% dei bambini con DSA presenta ritardo mentale (Surian, 2002).
Secondo quanto scrive Hermelin (1970): “Nel 1961 la commissione convocata da M. Creak et al., ha fornito una descrizione riguardante nove criteri comportamentali, di cui due, nell’elenco originale, erano ritenuti fondamentali da molti membri dell’equipe della Creak: una grave menomazione dei rapporti emotivi ed uno sfondo di grave ritardo con isolotti di funzioni intellettuali normali od eccezionali5. Questi punti erano considerati come caratteristici della sindrome schizofrenica infantile, ma descrivono indubbiamente i bambini spesso definiti ‘autistici’ da altri autori.” Nel DSM6-I (1952) eDSM-II (1968), infatti, l’autismo compariva come ‘schizofrenia infantile’.
Rutter (1966) e Rimland (1964), facendo riferimento ad alcuni criteri nosografici presenti nel DSM-I, furono i primi a ritenere che si dovesse distinguere l’autismo infantile dalla schizofrenia infantile, proprio partendo dall’evidenza di alcuni sintomi: il ‘vero’ bambino autistico è caratterizzato dall’insorgenza del disturbo prima dei due anni di età o addirittura alla nascita, a differenza del bambino malato di schizofrenia, che si ammala minimo a otto anni. Inoltre, nei soggetti autistici, vi è mancanza di deliri ed allucinazioni.
Proseguendo nella necessità di definire con più precisione i ‘criteri diagnostici’ dell'autismo, O’Gorman (1970) propose un elenco più puntuale, esaustivo, e legato ai sintomi, dei precedenti:
La conferma che si stessero prendendo le distanze dalla tesi psicosi/schizofrenia fu evidente alla fine degli anni '70, quando la principale rivista scientifica del settore cambiò il proprio titolo da Journal of Autism and Childhood Schizophrenia in Journal of Autism and Developmental Disorders. Molti ricercatori iniziarono a proporre definizioni più esplicitamente categoriali dell’autismo, e si giunse a un consenso circa la validità dell’autismo come categoria diagnostica7. In parallelo, in ambito psichiatrico, si attuavano molteplici tentativi per fornire migliori definizioni dei disturbi psichiatrici a scopi di ricerca. In entrambi gli ambiti di ricerca, si enfatizzò ulteriormente l’importanza di un approccio diagnostico multiassiale8 o multidimensionale9 (Cohen, 1997).
Wing, nel 1976, formulò una descrizione più completa della sindrome, con molti particolari e con le sue numerose varianti, e i suoi studi furono molto importanti, come si vedrà in seguito. Rutter, nel 1978, pensava che le differenze tra l'autismo e la schizofrenia fossero ormai così grandi, che le due patologie dovrebbero venire considerate come due condizioni ben separate, ed elencava come ‘criteri fondamentali’ (per giudicare il comportamento di bambini al di sotto di cinque anni):
Rutter specificò che le anomalie dei rapporti sociali e comunicativi erano peculiari e non solo una funzione di un eventuale ritardo mentale associato.
E’ interessante mettere a confronto i criteri semplificati di Rutter, che costituiscono il modello di riferimento dei sistemi ufficiali, con la definizione più elaborata concepita da
Ritvo per la National Society for Autistic Children (NSAC, 1978), negli Stati Uniti.
La definizione di Ritvo includeva disturbi:
Questa definizione sottolinea la ‘natura neuro-biologica’ dell’autismo. Sebbene presenti un più elevato numero di dettagli clinici, la definizione di Ritvo-NSAC si dimostrò meno autorevole rispetto alla sintesi formulata da Rutter che, probabilmente, era più chiara dal punto di vista concettuale e più vicina alla descrizione iniziale di Kanner.
Molti di questi sviluppi nelle definizioni sono stati incorporati nel DSM-III (APA, 1980), che rappresentò una vera inversione di tendenza nell’approccio alla categorizzazione dei disturbi di origine psicologica. Il tentativo (coerente con la filosofia generale del DSM a partire dagli anni ‘80) fu quello di ‘de-psicopatologizzare’ la nosografia, cercando di fondarla sempre meno sull’intuizione delle essenze psicopatologiche e sempre più su criteri oggettivi, operazionali ed epidemiologici. Il cambiamento fondamentale nel DSMIII (1980), è rappresentato proprio dalla definitiva distinzione degli ambiti dell’autismo e della schizofrenia, dall’introduzione concettuale dei “disturbi generalizzati dello sviluppo” (che implicitamente segna una discontinuità anche con la tradizione psicogenetista delle ‘psicosi’), e da una definizione criteriale dell’“autismo infantile”, fortemente influenzata dai lavori di Rutter (1974; 1978a e b), che formalizza ma anche riprende largamente, e sostanzialmente conferma, l’originaria descrizione di Kanner. Il passaggio fondamentale dal DSM-III al DSM-III-R (1987) fu costituito invece dalla focalizzazione sulla prospettiva evolutiva. Infatti, scomparve l’aggettivo ‘infantile’ e l’‘autismo infantile’ diventò ‘disturbo autistico’, tipicamente long life; scomparve l’equivoca nozione di autismo ‘residuo’, che mal rappresentava i cambiamenti possibili nel corso dell’evoluzione e alludeva all’ipotesi, largamente illusoria, di una ‘guarigione’ dall’autismo; furono inoltre ridefiniti (e allargati) i criteri di inclusione diagnostica, che vennero incentrati sulla “triade di Wing e Gould” (1979) (Ballerini et al.,2006).
In Inghilterra, gli studi di Wing e Gould (1979), avevano dimostrato un’associazione non casuale fra tre domini sintomatologici operazionalmente definibili; i tre domini potevano variamente combinarsi, nei singoli casi, per gravità e peso dei fenomeni clinici riferibili a ciascun dominio. Questa molteplicità di combinazioni determina le variazioni, anche importanti, di un continuum (lo ‘spettro’10 dei disturbi autistici più o meno ‘tipici’ e più o meno ‘puri’). Da allora, la “triade di Wing e Gould” (disturbo qualitativo delle capacità di interazione sociale; disturbo qualitativo delle capacità comunicative, linguistiche e non linguistiche e delle capacità immaginative; repertorio ristretto e ripetitivo di interessi e attività) definì i principali criteri diagnostici per il disturbo autistico e per le sue varianti. L’ampliamento della diagnosi di autismo conseguente all’adozione dei criteri di Wing-Gould, ha peraltro creato problemi di perdita di specificità, di iperinclusività diagnostica, e nel raccordo con l’altra grande classifìcazione internazionale ICD11che, nella sua decima versione (1992), presentava forti discrepanze con il DSM-III. Il passaggio dal DSM-III al DSM-IV (1994) fu caratterizzato quindi da un lavoro di riprecisazione criteriale, oltre che dalla decisione di includere nei disturbi pervasivi dello sviluppo quadri presenti nell’ICD-10, come il “disturbo di Asperger”.
Il termine più comunemente usato, allora ed oggi, per definire il più vasto gruppo di sindromi sintomatologicamente associate all’autismo è disturbi dello spettro autistico.
C’è però una certa confusione nell’uso di questo termine che, prevedendo un continuum diagnostico, può arrivare ad includere od ad escludere il disturbo autistico. Perciò alcuniautori hanno fatto riferimento ai disturbi del quadro autistico (Gillberg, 1990), altri all’autismo e ai disturbi del quadro autistico (Szatmari, 1992), ed altri ancora all’autismo e ai disturbi del suo spettro, o all’autismo e disturbi correlati. Wing talvolta si servì deltermine continuum autistico (Wing, 1989). Anche il concetto di autismo ed affezioni autistico-simili è usato come un ulteriore sinonimo (Steffenburg, 1991). Tutti questitermini di vasta accezione sono utilizzati più o meno nello stesso modo di “disturbi generalizzati dello sviluppo” (Gillberg, 2003).
Il manuale diagnostico al quale oggi si fa riferimento è il DSM-IV-Text Revision o DSM-IV-TR, pubblicato nel 2000 ed attualmente in vigore, in attesa dell’uscita del DSMV prevista per il 2012. Nel DSM-IV-TR il ‘Disturbo Autistico’ è inserito all’interno della categoria dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (termine utilizzato nella traduzione italiana del DSM-IV-TR, in luogo di ‘disturbi generalizzati dello sviluppo’, presente nella traduzione del DSM-IV-TR) che contiene: il Disturbo Autistico; il Disturbo di Asperger; il Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza; il Disturbo di Rett; il Disturbo Generalizzato dello Sviluppo non altrimenti specificato.
La Classificazione ICD-10 dell’O.M.S. (che definisce queste sindromi come Disturbi da alterazione globale dello sviluppo psicologico) prevede anche una categoria denominata ‘Autismo atipico’, in cui sono presenti soltanto una parte dei sintomi necessari per la diagnosi di autismo o l'età’ di esordio è successiva ai tre anni. Nel DSM-IV-TR questa categoria viene fatta confluire, nella categoria del Disturbo Generalizzato dello Sviluppo non altrimenti specificato. L’ICD10 contiene inoltre un’altra categoria definita Sindrome iperattiva associata a ritardo mentale e movimenti stereotipati.
I criteri diagnostici per il Disturbo Autistico (F84.0), secondo il DSM-IV-TR sono (p. 86-91):
A. Un totale di 6 (o più) voci da 1),2), e 3), con almeno 2 da 1), e uno ciascuno da
2) e da 3):
1. Compromissione qualitativa dell’interazione sociale, manifestata con almeno 2 dei seguenti:
a) marcata compromissione nell’uso di svariati comportamenti non verbali, come lo sguardo diretto, l’espressione mimica, le posture corporee e i gesti che regolano l’interazione sociale;
b) incapacità di sviluppare relazioni con i coetanei adeguate al livello di viluppo;
c) mancanza di ricerca spontanea nella condivisione di gioie, interessi o obiettivi con altre persone (per esempio, non mostrare, portare, né richiamare l’attenzione su oggetti di proprio interesse);
d) mancanza di reciprocità sociale ed emotiva.
2. Compromissione qualitativa della comunicazione come manifestato da almeno 1 dei seguenti:
a) ritardo o totale mancanza dello sviluppo del linguaggio parlato (non accompagnato da un tentativo di compenso attraverso modalità alternative di comunicazione come gesti o mimica);
b) in soggetti con linguaggio adeguato, marcata compromissione della capacità di iniziare o sostenere una conversazione con altri;
c) uso di linguaggio stereotipato e ripetitivo o linguaggio eccentrico;
d) mancanza di giochi di simulazione vari e spontanei, o di giochi di imitazione sociale adeguati al livello di sviluppo.
3. Modalità di comportamento, interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati, come manifestato da almeno 1 dei seguenti:
a) dedizione assorbente ad uno o più tipi di interessi ristretti e stereotipati anomali o per intensità o per focalizzazione;
b) sottomissione del tutto rigida ad inutili abitudini o rituali specifici;
c) manierismi motori stereotipati e ripetitivi (battere o torcere le mani o il capo, o complessi movimenti di tutto il corpo);
d) persistente ed eccessivo interesse per parti di oggetti.
B. Ritardi o funzionamento anomalo in almeno una delle seguenti aree, con esordio prima dei 3 anni di età: 1) interazione sociale, 2) linguaggio usato nella comunicazione sociale, o 3) gioco simbolico o di immaginazione.
C. L’anomalia non è meglio attribuibile al Disturbo di Rett o al Disturbo
Disintegrativo della Fanciullezza.
L’estrema variabilità di espressioni nel ‘continuum autistico’ ha risollevato peraltro l’altra questione, che da tempo immemorabile travaglia ogni nosografia: quella del rapporto tra approccio ‘categoriale’ e ‘dimensionale’, suggerendo ad alcuni che la diagnosi di autismo debba diventare sempre più una diagnosi dimensionale e non categoriale12 (Rapin, 2005). L’interminabile discussione nosografica continua; né può essere altrimenti, perché in essa si riflettono sia tutte le fondamentali questioni ancora aperte, sia i continui apporti della ricerca empirica (Barale e Ucelli, 2006).
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