Autismo, Processo Diagnostico ed Assessment

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Autismo, Processo Diagnostico ed Assessment

I bambini autistici non presentano segni particolari che ne contraddistinguono subito il destino, anzi, forse per compensare il danno, vengono considerati nella media molto belli. Individuare precocemente nel comportamento, unico elemento di diagnosi, la sintomatologia autistica è spesso molto difficile. Anche per i genitori e familiari, che, pur avendo spesso qualche sospetto relativo a comportamenti un po' strani e a piccoli ritardi nello sviluppo, aspettano elementi di certezza, nella speranza che tutto rientri nella norma. Spesso è la mancanza di linguaggio il primo campanello di allarme, mentre altri comportamenti sotto soglia (mancanza di sguardo ed attenzione congiunta, mancanza di pointing, mancanza di gioco creativo, presenza di stereotipie) difficilmente diventano motivo di allarme. I dati forniti da Volkmar e Klin (2000) per gli Stati Uniti indicano che nelle famiglie che hanno un figlio con autismo, in più del 50% dei casi i genitori erano già preoccupati per il comportamento del bambino entro il primo anno di vita, ed il 90% entro il secondo anno di vita; dati analoghi emergono dagli studi condotti in Italia (Militerni, 2002). Tali preoccupazioni, come sottolineato, sono però spesso aspecifiche, in quanto la bassa incidenza dell'autismo determina un basso indice di sospetto. In molti casi i genitori sospettano piuttosto che il bambino sia sordo, o che abbia un ritardo specifico nello sviluppo del linguaggio. Può verificarsi quindi un considerevole ritardo tra il manifestarsi delle preoccupazioni dei genitori e la prima osservazione da parte di uno specialista in grado di riconoscere l'autismo, ed è per i motivi sopra riportati che la diagnosi viene, nella maggioranza dei casi, rilasciata non prima dei tre anni negli Stati Uniti (Robins, 2003). Anche di fronte a casi sospetti intercorre un ulteriore lasso di tempo tra la prima visita e la diagnosi definitiva. Il processo diagnostico è di per sé lungo, anche per la responsabilità di una diagnosi così drammatica, che non è permesso sbagliare.

Poiché è ormai accertato che i bambini che ricevono un intervento precoce hanno maggiori probabilità di sviluppare competenze comunicative, e nello stesso tempo mostrano una diminuzione di comportamenti problematici (Siegel, 2003; Lord, 1995), e che la precocità dell'intervento è associata in molti casi a marcate influenze positive nell'esito evolutivo dei soggetti con autismo (Klin, Chawarska, Rubin e coll., in corso di stampa; National Research Council, 2001; Lovaas, 1987), la lunghezza di questi passaggi, oltre a causare ulteriore stress alle famiglie, rappresenta uno spreco di tempo prezioso nella programmazione di interventi efficaci. I diversi strumenti utili alla valutazione diagnostica sono stati concepiti soprattutto per confermare o meno una diagnosi di autismo in bambini già inviati ai servizi perché presentavano le caratteristiche dell'autismo o comunque dei problemi nello sviluppo (screening di livello 2). L'obiettivo di abbassare l'età della diagnosi può essere raggiunto mediante uno screening di livello 1, ovvero uno screening che preceda il momento in cui i genitori si rivolgono spontaneamente ai servizi, destinato quindi ad una popolazione pediatrica non selezionata. In accordo a tale obiettivo sono stati recentemente elaborati i primi strumenti volti a identificare l'autismo entro i due anni di età.

La Checklist for Autism in Toddlers (CHAT) (Baron-Cohen e coll., 1992), è una checklist utilizzata per individuare i primi segni della sintomatologia autistica all'età di 18 mesi, che viene messa a disposizione dei pediatri. Può essere perciò somministrata a tutti i bambini dalla nascita ai tre anni, nell'ambito delle periodiche visite mediche. L'obiettivo dello strumento è quello di mettere in allerta il pediatra riguardo alla necessità di ulteriori valutazioni condotte da esperti in ambito di salute mentale infantile in bambini con segni precoci di autismo. In seguito alla pubblicazione della CHAT, numerosi gruppi di ricerca hanno creato altri strumenti di screening sullo stesso modello, e nel 2001 è stata pubblicata negli Stati Uniti la M-CHAT (Modified Checklist for Autism in Toddlers) (Robins e coll., 2001), che sembrava rilevare l'autismo in modo più accurato della CHAT originale (Vivanti, 2007).

Un importante fattore da considerare è che l'utilizzo di strumenti di screening di livello 1, causa un aumento nel numero di bambini sotto i tre anni che sono inviati ai servizi per la valutazione diagnostica. La competenza clinica necessaria per fare una diagnosi ai bambini molto piccoli è notevole. Il primo problema è la minore sensibilità degli strumenti diagnostici nei soggetti con età inferiore a 36 mesi (Lord, Risi, 2000). Questo è probabilmente dovuto al fatto che i segni più evidenti dell'autismo, come i movimenti stereotipati e ripetitivi, emergono in fasi successive dello sviluppo. Nelle fasi precedenti è piuttosto l'assenza di determinati comportamenti (l'orientamento verso la voce umana, la capacità di indicare in modo dichiarativo, l'attenzione condivisa) a segnalare la presenza dell'autismo (Klin, Chawarska, Rubin, e coll., in corso di stampa). Per riconoscere questi segni, il clinico deve conoscere con precisione le tappe evolutive che caratterizzano lo sviluppo normale. La tipica disarmonia che caratterizza il profilo evolutivo dell'autismo è rintracciabile anche in bambini molto piccoli, pertanto è sempre fondamentale, quando si somministra un test che indaga le diverse aree di sviluppo, considerare l'eventuale scarto tra le diverse abilità, e non considerare le medie delle singole scale come un indice affidabile del livello di sviluppo del bambino. Se si è in presenza di scostamenti importanti tra le aree, è necessario approfondire le caratteristiche complessive dello sviluppo (Klin e coll., in corso di stampa).

Una volta che viene segnalato un bambino a rischio di autismo, il processo che può condurre alla conferma diagnostica si presenta come particolarmente delicato, lungo (proprio in considerazione della mancata eziologia), e deve venire effettuato da una equipe specializzata costituita dal neuropsichiatra infantile, dallo psicologo e dal terapista della neuropsicomotricità. Il modello è interdisciplinare, in quanto prevede un protocollo medico, uno psicologico ed uno riabilitativo, e multidimensionale, poiché oltre alla visita neurologica e alle eventuali indagini strumentali, è prevista una valutazione normativa, funzionale e sintomatologica. Seguendo le linee guida della Società italiana di Neuropsichiatria Infantile, il percorso diagnostico prevede incontri dell'equipe con i genitori per la raccolta delle informazioni anamnestiche (familiare e personale) e la somministrazione di interviste (semi)strutturate; per l'esame obiettivo neurologico sono indicate l'osservazione diretta strutturata e non strutturata, la somministrazione di test normativi, funzionali, sintomatologici, la valutazione neuropsicomotoria, le indagini strumentali.

In questa sede mi soffermerò sulle indagini sintomatologiche, normative e funzionali, anche se mi preme sottolineare che tutto il processo diagnostico deve vedere la famiglia parte attiva e non passiva.

 

1. La Valutazione sintomatologica.

La valutazione sintomatologica rileva i comportamenti sintomatici consentendo di identificare il disturbo che presenta una persona, oppure di escludere la diagnosi. Gli strumenti specifici della valutazione sintomatologica sono il DSM-IV-TR (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, quarta ed. Text Revised) e l'ICD-10, (Classificazione Internazionale dei Disturbi Psichici e Comportamentali, 10ª ed.). A questi manuali di riferimento si aggiungono una serie di scale, fra cui la Childhood Autism Rating Scale (CARS), l'Echelle du Comportament Autistique (ECA), e l'Autism Behavior Checklist (ABC). Di recente si è diffuso l'utilizzo dell'Autism Diagnostic Observation Schedule (ADOS) e degli strumenti a questo correlato, come l'Autism Diagnostic Interview-Revised (ADI-R). Sebbene esistano diversi strumenti, l'unica risorsa imprescindibile per la diagnosi sono i criteri di riferimento dell'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) riportati nell'ICD-10 e "tradotti" nel DSM. Poiché dei criteri del DSM IV-TR abbiamo già scritto in altro capitolo, ci soffermeremo sugli altri strumenti.

 

1.1 Childhood Autism Rating Scale (C.A.R.S.)

Childhood Autism Rating Scale (C.A.R.S.) (Schopler e coll., 1988), è una scala di valutazione diagnostica composta da 15 item i cui punteggi aiutano ad inquadrare un individuo come autistico o meno. Ciascuna delle 15 voci può ricevere un punteggio da 1 a 4, dove 1 indica che il comportamento del bambino è entro i limiti della norma, e 4 indica che il comportamento del bambino è fortemente atipico per la sua età. I punteggi intermedi indicano che il comportamento del bambino è valutato a metà strada fra due classi. Lo scopo della scala di valutazione è di dare punteggi ai comportamenti senza ricorrere a spiegazioni casuali. I punteggi C.A.R.S. possono essere desunti da fonti diverse, ad esempio da un esame psicologico, dalle modalità di partecipazione in classe, dai resoconti dei genitori e dall'anamnesi.

 

1.2 Autism Diagnostic Observation Schedule (ADOS)

Autism Diagnostic Observation Schedule (ADOS) (Lord, Rutter, DiLavore, 1996), è somministrata normalmente assieme al test Autism Diagnostic Interview Revised (ADI-R) (Lord, Rutter, LeCouter, 1994). Entrambi i test sono dotati di eccellenti qualità psicometriche e sono utili non solo per la classificazione categoriale, che porta all'attribuzione dell'etichetta diagnostica, ma anche per raccogliere una prima serie di informazioni sulla storia evolutiva del singolo bambino e sulla sua patologia, che possono essere utilizzate per la pianificazione di un percorso di intervento individualizzato. L'ADOS è un assessment semistrutturato che può essere utilizzato per valutare quasi tutti i soggetti con sospetto di sindrome autistica: dai bambini che non parlano, agli adulti senza disturbi nella verbalizzazione. L'ADOS fornisce punteggi cut-off sia per le diagnosi di screening dello spettro PDD/autismo, atipico/autismo, che dell'autismo inteso nel senso più stretto e tradizionale. Grazie a materiali standard e scalari, l'ADOS dà una misura dello spettro di disturbi riconducibili all'autismo, non dipendente dal linguaggio.

 

2. La Valutazione normativa.

La valutazione normativa viene definita anche come "evolutiva", "intellettiva" o "neuropsicologica". Nonostante questi termini non coincidano del tutto nel significato, la valutazione normativa identifica, quantitativamente il livello intellettivo (Q.I. 'quoziente intellettivo', espresso in punteggi percentuali), oppure l'età di sviluppo (ad esempio, se viene espresso un risultato in mesi o anche Q.S. se viene espresso un punteggio in percentuale), o un altro livello prestazionale. Questa tipologia di valutazione mette il bambino valutato in relazione alla "norma" e offre la possibilità sia di osservare le strategie cognitive e il profilo cognitivo o dello sviluppo, sia di osservare le variazioni di prestazioni nel tempo. Sebbene poco utile (e più spesso del tutto inutile) per la definizione del programma psico-educativo, il test normativo offre generalmente importanti informazioni per la definizione di quel complesso 'puzzle' che è la diagnosi della persona con autismo, e a volte fornisce informazioni utili sullo stile cognitivo della persona. Rispetto alla reale necessità di effettuare una valutazione normativa, ci si limita qui a sottolineare che, ove l'utilizzo del test normativo non tenesse fede al primo principio della valutazione, che è quello di essere di una qualche utilità per la persona e per la sua famiglia, la somministrazione del test andrebbe semplicemente evitata (Caretto, 2007). Per le persone con autismo in grado di parlare correttamente (cosa peraltro assai rara), si ritiene generalmente preferibile utilizzare i test più diffusi, cioè le scale Wechsler (Wechsler o WAIS-R per gli adulti, WISC-R per i bambini dai sei ai 16 anni, WPPSI per i bambini dai quattro ai sei anni).

 

2.1 WAIS-R.

Derivata dalla precedente WAIS, consiste di 11 subtest, di cui 6 compongono la Scala Verbale (Informazione, Comprensione, Ragionamento aritmetico, Analogie, Memoria di cifre e Vocabolario) e 5 la Scala di Performance (Associazione simboli a numeri, Completamento di figure, Disegno con i cubi, Riordinamento di storie figurate e Ricostruzione di oggetti). I due gruppi, verbale e di performance, possono essere somministrati indipendentemente l'uno dall'altro. E' possibile somministrare la prima a persone con deficit del linguaggio e la seconda a soggetti che hanno handicap visuo-motori. Il QI, calcolato dai dati della Scala Verbale, di Performance o Totale, è ricavato dal confronto diretto dei risultati ottenuti al test dal soggetto con quelli ottenuti dai soggetti appartenenti alla stessa classe d'età; esso costituisce forse il più significativo elemento d'informazione circa le capacità mentali del soggetto, in quanto è proprio il confronto con i coetanei che può essere assunto come la relazione più significativa.

 

2.2 WISC-R.

La WISC-R è utilizzabile dai 6 ai 16 anni. Comprende 12 prove, di cui 6 appartenenti alla Scala Verbale e 6 alla Scala di Performance. La prima scala valuta l'abilità di un soggetto nel risolvere problemi cognitivi proposti sotto forma di parole, ed è composta dai seguenti sub-test: Informazione, Somiglianze, Aritmetica, Vocabolario, Comprensione, Memoria di cifre. La seconda scala valuta l'abilità di risoluzione di problemi cognitivi proposti in maniera visiva tramite oggetti o figure, ed è composta dai seguenti sub-test: Completamento di figure, Storie figurate, Disegno con i cubi, Ricostruzione di oggetti, Cifrario, Labirinti. Il materiale per la somministrazione è analogo a quello della WAIS-R, ma adatto all'età.

 

1.1 WPPSI.

La WPPSI, come la WISC, è costituita da una batteria di sub-test, ognuno dei quali, preso isolatamente, può essere considerato come misura di una diversa capacità, mentre quando contribuisce a formare un punteggio composito, misura la capacità intellettiva generale o globale. La WPPSI è, quindi, al tempo stesso un'estensione della WISC e una scala distinta destinata a soddisfare in modo più efficace i problemi psicometrici che si presentano nell'esame dei bambini dai 4 ai 6 anni. Riprende, infatti, diverse prove della WISC, adattandole al livello dei bambini in età prescolare e rendendo possibile, in questo modo, una misurazione continua delle stesse attitudini durante tutto il periodo scolastico. La WPPSI conserva il QI come misura più efficace o migliore modalità per esprimere il patrimonio intellettivo del bambino rispetto ai soggetti della stessa età. La scala comprende 11 sub-test, 6 dei quali formano la Scala Verbale (Cultura generale, Vocabolario, Ragionamento aritmetico, Somiglianze, Comprensione generale e Frasi) e 5 la Scala di Performance (Casa degli animali, Completamento di figure, Labirinti, Disegno geometrico e Disegno con i cubi). A differenza della WISC, la somministrazione alterna prove verbali e di performance per mantenere più alto l'interesse e la collaborazione del bambino. Benchè le scale Wechsler siano le più usualmente diffuse, le caratteristiche di costruzione e di somministrazione le rendono raramente idonee all'utilizzo con soggetti autistici, in particolare perché, anche per quanto riguarda le scale di performance, le richieste sono "concepite" in maniera verbale ed alcune sono a tempo, quindi non è possibile fornire un feedback alla prestazione in presenza di limiti nella comprensione del compito e in assenza di verbalizzazione, che sono i deficit nucleari dell'autismo. Di fatto, nella pratica clinica, si riconosce la necessità di strumenti che si prestino ad un utilizzo più flessibile e che non necessitino del ricorso costante al linguaggio verbale. Come si vedrà successivamente, proprio l'utilizzo di queste scale ha determinato un ampio dibattito sulla loro idoneità e la necessità di sottoporre i bambini autistici a sessioni di assessment per determinare un livello di QI che nel caso specifico risulta essere del tutto superfluo.

Per i bambini piccoli, lo strumento più idoneo (benché assai datato) è la scala di sviluppo psicomotorio Brunet-Lezine (1951), mentre per i più grandi si utilizza la Scala Leiter-R (1979).

 

2.3 Brunet-Lezine.

La Scala dello Sviluppo Psicomotorio della Prima Infanzia valuta la crescita del bambino fra i 4 e i 30 mesi (anche se è applicabile a bambini con età cronologica più elevata e gli item coprono il periodo dello sviluppo che va dalla nascita ai 5 anni) in quattro aree dello sviluppo motorio/posturale, di adattamento con gli oggetti, verbale, delle relazioni sociali. Nella categoria delle relazioni sociali vengono compresi la presa di coscienza di sé, le relazioni col prossimo, l'adattamento alle situazioni sociali, i giochi. La scala è costituita da una serie di attività da valutare tramite osservazione diretta e con i materiali presenti nella scatola del kit, mentre altri item, denominati "domande", si riferiscono a comportamenti del bambino che è possibile cogliere incidentalmente durante l'osservazione come attività emesse spontaneamente o su cui è possibile richiedere informazioni ai genitori. La possibilità di coinvolgere i genitori nell'osservazione appare di particolare rilievo per l'utilizzo successivo della valutazione (ovvero la condivisione dei risultati con i genitori stessi) e per ottenere una sorta di "bilanciamento" fra ciò che il bambino mostra in ambito clinico e ciò che invece mostra in ambito familiare, che nell'autismo è molto spesso assai differente. Le risposte da attribuire ad ogni item sono "si/no", ovvero non sono ammesse risposte "parziali" su ciò che il bambino sta cominciando a fare ma non padroneggia e su ciò che fa se viene aiutato (quando l'aiuto è diverso da quello riportato esplicitamente nell'item). Oltre ad un punteggio di sviluppo globale, la scala prevede la possibilità di mantenere separati i punteggi ottenuti nei quattro campi sondati (controllo posturale e motricità, coordinazione oculomotrice, linguaggio e relazioni sociali e personali), e questo permette di studiare i ritmi di sviluppo in ciascuna area e di individuarne un eventuale ritardo e una disomogeneità, rendendo possibile, inoltre, un intervento precoce. La scala rende pertanto possibile il confronto del bambino valutato con un bambino "tipico", esprimendo questa somiglianza in mesi di sviluppo, in ognuno dei quattro campi e con una misura complessiva.

Quando si utilizza la scala Brunet-Lezine con i bambini con sospetto autismo, è bene effettuare la somministrazione tenendo presenti alcuni particolari importanti. Innanzi tutto, la scala va somministrata per intero, senza dare per scontata l'acquisizione di alcuno degli item. La seconda accortezza riguarda il modo di proporre le domande ai genitori. Infatti, durante la fase di sviluppo su cui la scala è focalizzata, è frequente che si siano verificate delle regressioni, e i genitori possono essere confusi fra il rispondere in base a ciò che il bambino faceva prima o dopo la regressione. Va chiarito dunque che la scala valuta ciò che il bambino fa al momento attuale.

 

1.1 Leiter International Performance Scale-Revised (Leiter-R).

E' una scala di QI completamente non verbale, che non richiede comunicazione verbale fra esaminatore e soggetto, né che quest'ultimo legga o scriva. E' quindi particolarmente adatta per bambini e adolescenti con difficoltà nel linguaggio verbale o con difficoltà di comunicazione. La scala costituisce l'evoluzione della precedente scala Leiter (1940), che per molti anni è stata considerata, a ragione, uno dei pochi test intellettivi veramente adatti alle persone con autismo. La Leiter-R consiste in due batterie standardizzate: Visualizzazione e Ragionamento (VR), costituita di 10 sub-test per la misura di capacità cognitive non verbali legate alla visualizzazione, alle abilità spaziali e al ragionamento; Attenzione e Memoria (AM), costituita anch'essa di 10 sub-test. La Batteria VR prevede due possibilità di valutare l'intelligenza globale: per mezzo di uno screening del QI breve, o attraverso la scala completa di misura del QI, per una stima affidabile e completa dell'intelligenza non verbale. Sono incluse inoltre quattro scale di livello (per l'esaminatore, per il genitore, di autovalutazione e per l'insegnante), che permettono un'osservazione multidimensionale del comportamento del soggetto.

Le due batterie possono essere somministrate assieme o separatamente. Entrambe permettono di ottenere punteggi "di crescita" che misurano piccoli ma importanti miglioramenti in soggetti con gravi deficit cognitivi, in modo che sia possibile monitorarne nel tempo i progressi. Il vantaggio che la Leiter-R offre su tutte le altre scale è quello di non utilizzare il linguaggio: tutti i compiti, con poche eccezioni, sono concepiti in modo che si possa capire la richiesta anche solo osservando il materiale proposto. Purtroppo la scala presenta degli svantaggi: la somministrazione completa richiede molto tempo (ma è possibile una somministrazione parziale) e una ottima preparazione dei valutatori. Inoltre, non è adatta a tutti i bambini e adolescenti: sebbene secondo il manuale l'utilizzo della scala sia possibile a partire dal secondo anno d'età, spesso per somministrarla è necessario aspettare che il bambino presenti alcuni prerequisiti legati alla capacità di mantenere l'attenzione, di trattare materiale bidimensionale (figure), di indicare e di cambiare risposta al variare della richiesta. (Nella vecchia scala la richiesta, effettuata su materiale tridimensionale, era facilmente eseguibile per persone con autismo e rimaneva praticamente la stessa per tutto il test)

 

3. La Valutazione Funzionale.

La valutazione funzionale ha lo scopo di identificare le abilità e le potenzialità di un individuo in funzione alla pianificazione di un programma educativo individualizzato. II termine "funzionale" si riferisce sia alla filosofia di fondo utilizzata nella costruzione delle prove (detta "ecologica" per la concreta spendibilità nella vita quotidiana delle abilità prese in considerazione), sia alla possibilità di utilizzo delle prove stesse per la costruzione del programma di intervento. Gli obiettivi della valutazione funzionale riguardano dunque la possibilità di comprendere le abilità e gli stili di apprendimento peculiari per sviluppare un programma educativo individualizzato e più adattato possibile. La valutazione funzionale tende a fornire ai genitori e agli educatori informazioni precise riguardo alla persona valutata, a dare supporto emozionale e un aiuto concreto, ovvero suggerimenti pratici in merito a "ciò che si può fare" sotto il profilo psico-educativo.

La valutazione funzionale "diretta", in presenza della persona da valutare, viene condotta attraverso due principali modalità differenti, che si completano fra loro: la valutazione "formale", ovvero quella effettuata con specifici strumenti, e la valutazione "informale" o "non strutturata", che viene effettuata senza specifici strumenti51. L'osservazione diretta strutturata prevede l'uso di strumenti o test, mentre l'osservazione diretta non strutturata si svolge generalmente in contesti che permettono l'osservazione di quei comportamenti e quelle abilità sottili che "sfuggono" ad una valutazione standardizzata. L'oggetto specifico della valutazione funzionale riguarda, come si è detto, le abilità attuali o potenziali di una persona, bambino, adolescente o adulto che sia. Le abilità attuali o acquisite sono quelle che riguardano le performance "riuscite", vale a dire le attività svolte in maniera del tutto autonoma. Le abilità potenziali o emergenti riguardano invece le attività che la persona valutata esegue parzialmente o con l'aiuto da parte del valutatore. Il programma educativo individualizzato è costruito basandosi sulle abilità acquisite, come se fossero le fondamenta di una casa, e mettendo a punto, e consolidando, quello che è già parzialmente esistente o "immaginabile", cioè le potenzialità, come se fossero i muri della casa. La valutazione funzionale si occupa delle performance "non riuscite" solo marginalmente. Questo perché le attività non acquisite non aiutano la costruzione di nuove abilità, cioè non è possibile costruire il tetto senza avere le fondamenta e le colonne portanti. Nella valutazione funzionale non si valutano solamente la presenza/assenza di abilità, bensì la qualità dell'espressione di tali abilità, e in particolare si cerca di cogliere la presenza di uno "stile" di apprendimento e delle motivazioni personali di chi viene valutato, ovvero di tutti quegli elementi che possono facilitare l'implementazione del programma educativo.

Per l'autismo, i due strumenti maggiormente utilizzati a livello internazionale, e anche in Italia, sono il P.E.P.-R/P.E.P. 3 e l'A.A.P.E.P.

 

3.1 Il Profilo Psico-educativo-Rivisto (P.E.P.-R)

Il Profilo Psico-educativo-Rivisto (P.E.P.-R) è una valutazione funzionale elaborata in Nord Carolina da Schopler e Reichler (1979), e pubblicata in Italiano dalle Edizioni SZH di Lucerna, che permette di valutare le diverse abilità di un bambino fra 1 e 6 anni circa, definendo il livello di sviluppo raggiunto in sette aree evolutive, che vengono osservate direttamente: imitazione, percezione, motricità fine, motricità globale, coordinazione oculo-manuale, area cognitiva e area cognitivo-verbale. La modalità di codifica delle risposte è data da tre livelli di Performance: Riuscito, per le abilità acquisite; Emergente, per le attività effettuate parzialmente o con aiuto; Non riuscito, per le abilità non acquisite. Attraverso questo tipo di valutazione, si evidenziano i punti di forza e di debolezza del bambino e si identificano le "abilità emergenti" che saranno l'obiettivo del programma educativo. La scala P.E.P. non è un test di intelligenza né un test diagnostico, sebbene possa aiutare a comprendere l'età di sviluppo del bambino e contribuisca all'elaborazione della diagnosi. La rappresentazione grafica del profilo di sviluppo consente una immediata visualizzazione della sua maggiore o minore omogeneità, come la comprensione della distribuzione delle abilità emergenti o potenziali.

Il profilo tipico di un bambino autistico ha una distribuzione disomogenea, con un andamento particolare caratterizzato da maggiori competenze motorie (centrali) e minori competenze imitative, cognitive e linguistico-verbali. Le abilità percettive, che in alcuni bambini risultano molto buone, in altri sono del tutto inadeguate. La scala P.E.P. è stata costruita con un criterio "evolutivo", ovvero: sebbene l'obiettivo sia funzionale, gli item sono stati elaborati in modo da consentire un confronto del bambino valutato con bambini con sviluppo tipico o con ritardo (per questo motivo il materiale è standardizzato). I diversi punteggi corrispondono alle età in cui generalmente compaiono differenti abilità, ed è possibile comparare il numero totale di item riusciti con l'età cronologica effettiva. La somministrazione è, almeno teoricamente, più semplice che nei test normativi: non ci sono prove a tempo, le prove possono essere ripetute, il test si può somministrare in più giornate (o in un unico incontro), non c'è un ordine fisso nella scelta degli item da somministrare. Inoltre, l'utilizzo del linguaggio verbale è assai limitato. Gli item relativi alle abilità sono 131.

La maggiore difficoltà consiste nell'assoluta necessità, da parte di chi somministra, di avere una conoscenza della logica dell'intervento: chi somministra deve saper fornire un livello di aiuto ottimale. Gli aiuti sono indicati nel testo per la somministrazione, ma senza esperienza diretta non è facile distinguere fra ciò che può veramente aiutare il bambino, ciò che ne limita l'autonomia, e quando ci si sta invece sostituendo a lui o si sta interferendo addirittura con la prestazione. Uno dei principi da tenere presente durante la somministrazione è quello di far sentire il bambino a suo agio, motivato e capace. Ne consegue che "l'aiuto" ha forti ragioni per essere utilizzato, ma è necessaria una buona capacità da parte del valutatore per discriminare fra aiuti che servono a far sentire il bambino a suo agio, a conquistare la sua collaborazione e a farlo sentire capace, e aiuti che servono a comprendere il "funzionamento" del bambino.

 

P.E.P. 3 (2005).

E' l'evoluzione della P.E.P.-R. Il progetto della P.E.P. 3 è stato intrapreso con lo scopo di migliorare le proprietà psicometriche della P.E.P.-R e renderla più attuale e corrispondente alle esigenze degli utilizzatori. Nella P.E.P. 3 sono stati corretti i principali problemi psicometrici riscontrati nell'utilizzo della scala precedente, senza perdere la flessibilità di somministrazione e di punteggio, caratteristica importante per venire incontro all'apprendimento specifico e ai bisogni educativi dei bambini nello spettro autistico. E' stato anche riaffermato che sia le valutazioni formali che quelle informali sono essenziali per comprendere adeguatamente e valutare i bisogni di apprendimento ed educativi di ogni bambino. La valutazione formale è necessaria per l'identificazione dei bambini autistici secondo standard educativi legali, mentre la valutazione informale è essenziale per identificare le abilità e i modelli di apprendimento di ciascun bambino. La collaborazione dei genitori viene realizzata attraverso il nuovo Caregiver Report, che viene completato prima della valutazione del bambino. Il "modulo chiede ai genitori (o altri caregiver) di valutare il livello di sviluppo del bambino in maniera comparativa con i bambini con sviluppo tipico. Questo modulo è stato validato da Schopler e Reichler (1979), che lo hanno trovato utile specialmente nelle aree rurali dove non sono facilmente disponibili professionisti esperti. La P.E.P. 3 offre anche utili informazioni sulla reciprocità sociale. Particolarmente importante è l'aggiunta di dati che identificano speciali punti di forza dell'apprendimento e abilità educabili, come interessi ristretti, "sintomi autistici" precoci e spesso male interpretati La P.E.P. 3 introduce un ulteriore miglioramento attraverso la messa a disposizione di dati normativi, sia in confronto con soggetti nello spettro autistico, sia in confronto con bambini con sviluppo tipico. E' l'unico test che al momento fornisce dati per il confronto con il gruppo di bambini nello spettro autistico. Questa revisione fornisce informazioni attuali e di facile accessibilità richieste dalle sempre più numerose traduzioni della P.E.P. in altre lingue e la crescente adozione delle procedure TEACCH (TEACCH, acronimo di Treatment and Education of Autistic and Communication Handicaped Children, indica l'organizzazione dei servizi per persone autistiche che prevede una presa in carico globale in senso sia "orizzontale" che "verticale", cioè in ogni momento della giornata, in ogni periodo dell'anno e della vita e per tutto l'arco dell'esistenza, un intervento "pervasivo" per un disturbo pervasivo. Ideato e progettato da Eric Schopler negli anni '60 in Carolina del Nord) in paesi stranieri. La P. E.P. 3 fornisce una valida misura clinica sia dell'abilità di un bambino che della disabilità di sviluppo. Oltre alle nuove dimensioni aggiunte essa include: (a) item non verbali, (b) procedure di somministrazione flessibili, (c) item non a tempo, (d) materiali concreti che risultano interessanti anche per i bambini con danni più gravi, (e) diversi livelli di sviluppo che forniscono possibilità di successo per tutti i soggetti esaminati e (f) item sul linguaggio che sono separati dalle altre aree funzionali, rendendo quindi praticamente tutti i bambini nello spettro autistico valutabili ed educabili. Questa terza edizione combina i dati della più recente ricerca sull'autismo con l'informazione ormai acquisita necessaria per formulare diagnosi e prescrivere raccomandazioni per la pianificazione di interventi comportamentali individualizzati efficaci e programmi educativi.

La terza edizione, sebbene coerente con le precedenti due, è stata sostanzialmente migliorata nel modo seguente:

  1. Le diverse aree funzionali sono state riviste per adeguarsi agli interessi e risultati della ricerca e della clinica, specialmente nell'area delle funzioni sociali e della comunicazione.
  2. La maggior parte dei giocattoli e materiali necessari per somministrare il test sono inclusi nel kit.
  3. Sono stati aggiunti nuovi item e sub-test, e ne sono stati eliminati alcuni obsoleti.
  4. Sono stati raccolti dati normativi dal 2002 al 2003, con ampi campioni nazionali di bambini nello spettro autistico e di bambini con sviluppo tipico, dell'età dai 2 ai 7 anni e mezzo. Questi sono i primi dati normativi forniti per il confronto dei risultati alla P.E.P. di un bambino con il suo gruppo di riferimento.
  5. I coefficienti di attendibilità sono stati calcolati per età e per i sottogruppi all'interno del campione normativo (cioè maschi e femmine, bianchi, neri e ispanici).
  6. La validità è verificata per i bambini nello spettro autistico per tutte le aree misurate dal test.
  7. Il punteggio è stato quantificato come 0, 1 e 2 e ogni punteggio è chiaramente definito, rendendo il confronto statistico più accurato. Allo stesso tempo, è stata mantenuta la flessibilità del precedente sistema che usava la codifica di "superato", "emergente" e "non superato".
  8. E' stato aggiunto un Caregiver Report che include livelli attuali di Sviluppo, Categorie Diagnostiche e Grado del Problema, e tre subtest: Problemi Comportamentali, Cura di Sé, e Comportamento Adattivo. Il Caregiver Report fornisce agli educatori e agli altri professionisti informazioni operative necessarie per una pianificazione più efficace e completa per ciascun bambino.

 

3.3 Adolescent and Adult Psycho Educational Profile (A.A.P.E.P.) (1988).

E' da considerare l'evoluzione della P.E.P. per età più elevate. E' una scala che consente di identificare le diverse abilità del ragazzo in sei aree evolutive: abilità professionali, funzionamento autonomo, abilità di tempo libero, comportamento professionale, comunicazione funzionale, comportamento interpersonale. E' costituita da tre sotto-scale che permettono di valutare i punti di forza e di debolezza del ragazzo in tre contesti differenti. La Scala di Osservazione Diretta, che viene somministrata nel setting clinico, la Scala Familiare e la Scala Scolastica/Lavorativa che vengono somministrate tramite colloqui con i genitori del ragazzo o con l'insegnante o il supervisore lavorativo. Come per la P.E.P., la modalità di registrazione delle risposte è data da tre livelli di performance: Superato (indica le abilità già raggiunte dal ragazzo); Non superato (indica che il ragazzo non è ancora pronto ad acquisire una determinata abilità); Emergente (indica le abilità specifiche suscettibili di miglioramento). I risultati delle tre scale vengono integrati per formulare il piano educativo individualizzato. La scala di osservazione diretta, diversamente dalle altre, contiene degli item "di ordine superiore" (4 per ogni area) che forniscono indizi, rispetto a ragazzi con un funzionamento particolarmente buono, circa le possibilità di vita indipendente e di inserimento lavorativo.

Diversamente dalla scala P.E.P., la A.A.P.E.P. non è costruita con un criterio evolutivo, ma unicamente funzionale (contiene item come: uso del telefono; contare oggetti; lavarsi le mani; giocare a flipper, ecc …). La mancanza di un criterio evolutivo dipende dalla necessità di valutare la possibilità che un individuo sia in grado di mostrare comunque indipendenza in determinate attività. In pratica la logica del test è quella secondo cui non è importante sapere a che età, mediamente, si è in grado di allacciarsi le scarpe, ma è importante potersi mettere le scarpe autonomamente per chiunque si trovi in età adolescenziale o adulta. Più che il raffronto con lo sviluppo tipico, è invece molto importante, nella A.A.P.E.P., avere la possibilità di comparare ciò che avviene in osservazione diretta, ovvero in un contesto clinico e con specialisti, con ciò che avviene nel contesto familiare, scolastico a lavorativo. Le persone con autismo sono molto dipendenti dall'ambiente (mostrano difficoltà a generalizzare spontaneamente) e fra l'una e l'altra sottoscala si possono evidenziare notevoli variazioni. Questa informazione è di grande aiuto nell'elaborazione del programma educativo: i risultati ottenuti dagli specialisti sono sempre considerati insieme all'input fornito da genitori e insegnanti. Le scale per i familiari e per gli insegnanti andrebbero utilizzate come base per un colloquio, e non andrebbero lasciate alla compilazione individuale. Benché a volte la distanza fra esaminatori e residenza della famiglia non consenta la somministrazione diretta delle scale (in particolare di quella rivolta agli educatori), si deve ricordare che la compilazione non mediata dal professionista riduce l'attendibilità delle informazioni, e quindi nel complesso, l'efficacia del programma educativo che verrà elaborato. Al termine del test, è possibile evidenziare i risultati attraverso tre grafici.

 

4. Conclusioni

Come è facile cogliere da quanto detto precedentemente, la valutazione funzionale guida effettivamente la composizione del programma educativo, anzi ne costituisce in partenza l'orientamento e l'ossatura, indirizzando le scelte degli educatori. Bisogna evidenziare in effetti che la logica della valutazione funzionale si basa su una posizione "ideologica", secondo cui si deve puntare a migliorare la qualità della vita sviluppando il massimo grado di indipendenza di ognuno.

Questa considerazione non riguarda unicamente l'utilità che può ricoprire la valutazione funzionale per l'educatore, ma riguarda anche la prospettiva che viene "passata" al genitore insieme ai risultati del test. Nell'autismo è molto difficile, se non impossibile, puntare all'uscita della persona dall'etichetta diagnosticata. E' invece più che auspicabile puntare alla migliore qualità di vita possibile e alla migliore condizione di autorealizzazione possibile. Focalizzando l'attenzione sulle "potenzialità", il test funzionale rende possibile spostare l'attenzione dal deficit alle capacità, e da qui, ancora alle "possibilità", restituendo spesso ai ragazzi e alle loro famiglie un'idea di futuro prossimo, realistica e non deprimente o irrealizzabile (Caretto, 2007)

 

 


La variabilità interindividuale tra autistici e la complessità della sintomatologia, rendono particolarmente difficile la definizione di un unico modello diagnostico operativo ancora oggi. Per questo motivo, Gillberg e Coleman (2003) utilizzarono la forma plurale 'sindromi autistiche', e Surian (2002) mise in discussione la correttezza della diagnosi di autismo, che potrebbe essere sostituita dalla rilevazione di tratti autistici.
Se da un ‘clinico’ che sia attento al singolo ed all’unicità del fenomeno umano, la classificazione può essere considerata iatrogena, cioè indice di stigmatizzazione e di etichettamento, di superficialità e generalizzazione, tanto più rischia di esserlo per un disturbo o meglio ‘sindrome’ come quella autistica. Il termine sindrome può essere inteso generalmente come “un complesso di sintomi che, caratterizzando un particolare stato morboso, ne rendono possibile la diagnosi”. Nel caso dell’autismo è più corretto ricordare che: “In medicina, il termine “sindrome” significa che tutta una serie di patologie completamente differenti può arrivare all’espressione clinica servendosi di una via con una parte finale comune, cosicché assomigliano le une alle altre e possono essere confuse le une con le altre.” (Gillberg, Coleman, 2003).

Ma le difficoltà nella classificazione non devono oscurare i suoi vantaggi. Cantwell

(1996) descrisse molto dettagliatamente tali vantaggi: “I sistemi di classificazione esistono per svariati motivi, ma il loro scopo principale è indubbiamente favorire la comunicazione. Questa è, infatti, essenziale per conferire attendibilità e validità ai risultati delle ricerche, consentendo la condivisione delle conoscenze e alimentando una graduale crescita del sapere. Per i clinici e per gli educatori, la classificazione è di aiuto nel guidare gli esperti nella scelta dei trattamenti per ciascun individuo, nonché nella valutazione dei benefici di un determinato intervento per gruppi di soggetti affetti da problemi analoghi.

Se la classificazione favorisce la comunicazione e la condivisione delle conoscenze, alimentando una graduale crescita del sapere, ed aiuta gli esperti nella scelta dei trattamenti (che nell’autismo devono essere precoci perché il disturbo ha un'insorgenza precoce), allora anche i ‘clinici’ devono ‘obtorto collo’ diventare agenti attivi nella loro utilizzazione e trasformazione.

Il merito maggiore di Kanner (1943), e lo si deve riconoscere per la serietà e l’attenzione con la quale ha condotto, da pioniere, il suo lavoro, è di aver evidenziato le nove3 caratteristiche fondamentali presenti nell’elenco del suo primo articolo sull’autismo4, che sono utilizzate ancora oggi nella rappresentazione classica di un caso tipico di autismo ‘paradigmatico’ o sindrome autistica. Ricordiamo che, sempre nel 1956, lo stesso Eisenberg e Kanner ridussero i criteri diagnostici a due caratteristiche essenziali:

isolamento estremo e comportamento routinario ed avversione ai cambiamenti, con esordio durante i primi due anni di vita”, considerandoli sufficienti per una diagnosi e contribuendo ad accrescere la confusione già esistente. L’autismo appare tuttora, come sosteneva Kanner, una costellazione specifica di sintomi, deficit selettivi e abilità preservate. Alcune di queste caratteristiche hanno trovato conferma nelle indagini successive e sono ora presenti nei criteri diagnostici internazionali. Altre sono considerate ora disturbi associati all’autismo, ma non centrali nella diagnosi. Altre caratteristiche, infine, si sono dimostrate non associate all'autismo. Ad esempio, se per lungo tempo si è pensato che la maggior parte dei bambini avessero buone capacità cognitive, oggi è stabilito che più del 70% dei bambini con DSA presenta ritardo mentale (Surian, 2002).

Secondo quanto scrive Hermelin (1970): “Nel 1961 la commissione convocata da M. Creak et al., ha fornito una descrizione riguardante nove criteri comportamentali, di cui due, nell’elenco originale, erano ritenuti fondamentali da molti membri dell’equipe della Creak: una grave menomazione dei rapporti emotivi ed uno sfondo di grave ritardo con isolotti di funzioni intellettuali normali od eccezionali5. Questi punti erano considerati come caratteristici della sindrome schizofrenica infantile, ma descrivono indubbiamente i bambini spesso definiti ‘autistici’ da altri autori.” Nel DSM6-I (1952) eDSM-II (1968), infatti, l’autismo compariva come ‘schizofrenia infantile’.

Rutter (1966) e Rimland (1964), facendo riferimento ad alcuni criteri nosografici presenti nel DSM-I, furono i primi a ritenere che si dovesse distinguere l’autismo infantile dalla schizofrenia infantile, proprio partendo dall’evidenza di alcuni sintomi: il ‘vero’ bambino autistico è caratterizzato dall’insorgenza del disturbo prima dei due anni di età o addirittura alla nascita, a differenza del bambino malato di schizofrenia, che si ammala minimo a otto anni. Inoltre, nei soggetti autistici, vi è mancanza di deliri ed allucinazioni.

Proseguendo nella necessità di definire con più precisione i ‘criteri diagnostici’ dell'autismo, O’Gorman (1970) propose un elenco più puntuale, esaustivo, e legato ai sintomi, dei precedenti:

  1. Ritiro dalla realtà o incapacità di farsi coinvolgere da essa; in particolare, incapacità di stabilire rapporti normali con gli altri.
  2. Grave ritardo mentale in presenza di ‘isole’ di funzioni intellettuali o di abilità di livello superiore, o intorno alla norma, o eccezionali.
  3. Incapacità di acquisire il linguaggio, o di conservare o di migliorare il linguaggio già appreso, oppure di usarlo per comunicare.
  4. Reazioni anormali a uno o più tipi di stimoli sensoriali (solitamente di natura acustica).
  5. Esibizione vistosa e spesso prolungata di ‘manierismi’ e di altre peculiarità del movimento, comprese l’immobilità e l’ipercinesi, ma con esclusione dei tic.
  6. Resistenza patologica al cambiamento, che può manifestarsi come:
    1. Insistenza del paziente all’osservanza di rituali nel proprio comportamento o in quello di chi gli sta intorno.
    2. Attaccamento patologico all’ambiente consueto, agli tessi oggetti, agli stessi giocattoli e alle stesse persone (anche se il rapporto con queste persone può essere puramente meccanico e vuoto dal punto di vista emotivo).
    3. Eccessiva attenzione nei confronti di particolari oggetti o loro caratteristiche, in assenza di ogni considerazione delle loro funzioni normali.
    4. Forte terrore, rabbia o eccitamento, oppure accresciuto ritiro e chiusura in se stessi quando si prospetta il pericolo di un cambiamento nell’ambiente, per esempio per l’arrivo di estranei.

La conferma che si stessero prendendo le distanze dalla tesi psicosi/schizofrenia fu evidente alla fine degli anni '70, quando la principale rivista scientifica del settore cambiò il proprio titolo da Journal of Autism and Childhood Schizophrenia in Journal of Autism and Developmental Disorders. Molti ricercatori iniziarono a proporre definizioni più esplicitamente categoriali dell’autismo, e si giunse a un consenso circa la validità dell’autismo come categoria diagnostica7. In parallelo, in ambito psichiatrico, si attuavano molteplici tentativi per fornire migliori definizioni dei disturbi psichiatrici a scopi di ricerca. In entrambi gli ambiti di ricerca, si enfatizzò ulteriormente l’importanza di un approccio diagnostico multiassiale8 o multidimensionale9 (Cohen, 1997).

Wing, nel 1976, formulò una descrizione più completa della sindrome, con molti particolari e con le sue numerose varianti, e i suoi studi furono molto importanti, come si vedrà in seguito. Rutter, nel 1978, pensava che le differenze tra l'autismo e la schizofrenia fossero ormai così grandi, che le due patologie dovrebbero venire considerate come due condizioni ben separate, ed elencava come ‘criteri fondamentali’ (per giudicare il comportamento di bambini al di sotto di cinque anni):

  1. La comparsa dei primi sintomi entro il trentesimo mese di vita.
  2. Lo sviluppo disturbato del comportamento sociale, che presenta un certo numero di caratteristiche specifiche e che non corrisponde al livello intellettuale del bambino.
  3. L’ apprendimento del linguaggio ritardato e deviante, anch’esso con aspetti tipici e non corrispondente al livello intellettuale del bambino.
  4. L’ “insistenza sull’identicità” (insistence on sameness) che si manifesta in forme stereotipate di gioco, nella resistenza al cambiamento e nel modo anormale di rivolgere l’attenzione.

Rutter specificò che le anomalie dei rapporti sociali e comunicativi erano peculiari e non solo una funzione di un eventuale ritardo mentale associato.

E’ interessante mettere a confronto i criteri semplificati di Rutter, che costituiscono il modello di riferimento dei sistemi ufficiali, con la definizione più elaborata concepita da

Ritvo per la National Society for Autistic Children (NSAC, 1978), negli Stati Uniti.

La definizione di Ritvo includeva disturbi:

  1. nelle fasi e sequenze dello sviluppo;
  2. nelle risposte agli stimoli sensoria1i;
  3. nel linguaggio verbale, nella cognizione del linguaggio e nella comunicazione non verbale;
  4. nella capacità di relazionarsi adeguatamente con persone, eventi e cose.

Questa definizione sottolinea la ‘natura neuro-biologica’ dell’autismo. Sebbene presenti un più elevato numero di dettagli clinici, la definizione di Ritvo-NSAC si dimostrò meno autorevole rispetto alla sintesi formulata da Rutter che, probabilmente, era più chiara dal punto di vista concettuale e più vicina alla descrizione iniziale di Kanner.

Molti di questi sviluppi nelle definizioni sono stati incorporati nel DSM-III (APA, 1980), che rappresentò una vera inversione di tendenza nell’approccio alla categorizzazione dei disturbi di origine psicologica. Il tentativo (coerente con la filosofia generale del DSM a partire dagli anni ‘80) fu quello di ‘de-psicopatologizzare’ la nosografia, cercando di fondarla sempre meno sull’intuizione delle essenze psicopatologiche e sempre più su criteri oggettivi, operazionali ed epidemiologici. Il cambiamento fondamentale nel DSMIII (1980), è rappresentato proprio dalla definitiva distinzione degli ambiti dell’autismo e della schizofrenia, dall’introduzione concettuale dei “disturbi generalizzati dello sviluppo” (che implicitamente segna una discontinuità anche con la tradizione psicogenetista delle ‘psicosi’), e da una definizione criteriale dell’“autismo infantile”, fortemente influenzata dai lavori di Rutter (1974; 1978a e b), che formalizza ma anche riprende largamente, e sostanzialmente conferma, l’originaria descrizione di Kanner. Il passaggio fondamentale dal DSM-III al DSM-III-R (1987) fu costituito invece dalla focalizzazione sulla prospettiva evolutiva. Infatti, scomparve l’aggettivo ‘infantile’ e l’‘autismo infantile’ diventò ‘disturbo autistico’, tipicamente long life; scomparve l’equivoca nozione di autismo ‘residuo’, che mal rappresentava i cambiamenti possibili nel corso dell’evoluzione e alludeva all’ipotesi, largamente illusoria, di una ‘guarigione’ dall’autismo; furono inoltre ridefiniti (e allargati) i criteri di inclusione diagnostica, che vennero incentrati sulla “triade di Wing e Gould” (1979) (Ballerini et al.,2006).

In Inghilterra, gli studi di Wing e Gould (1979), avevano dimostrato un’associazione non casuale fra tre domini sintomatologici operazionalmente definibili; i tre domini potevano variamente combinarsi, nei singoli casi, per gravità e peso dei fenomeni clinici riferibili a ciascun dominio. Questa molteplicità di combinazioni determina le variazioni, anche importanti, di un continuum (lo ‘spettro’10 dei disturbi autistici più o meno ‘tipici’ e più o meno ‘puri’). Da allora, la “triade di Wing e Gould” (disturbo qualitativo delle capacità di interazione sociale; disturbo qualitativo delle capacità comunicative, linguistiche e non linguistiche e delle capacità immaginative; repertorio ristretto e ripetitivo di interessi e attività) definì i principali criteri diagnostici per il disturbo autistico e per le sue varianti. L’ampliamento della diagnosi di autismo conseguente all’adozione dei criteri di Wing-Gould, ha peraltro creato problemi di perdita di specificità, di iperinclusività diagnostica, e nel raccordo con l’altra grande classifìcazione internazionale ICD11che, nella sua decima versione (1992), presentava forti discrepanze con il DSM-III. Il passaggio dal DSM-III al DSM-IV (1994) fu caratterizzato quindi da un lavoro di riprecisazione criteriale, oltre che dalla decisione di includere nei disturbi pervasivi dello sviluppo quadri presenti nell’ICD-10, come il “disturbo di Asperger”.

Il termine più comunemente usato, allora ed oggi, per definire il più vasto gruppo di sindromi sintomatologicamente associate all’autismo è disturbi dello spettro autistico.

C’è però una certa confusione nell’uso di questo termine che, prevedendo un continuum diagnostico, può arrivare ad includere od ad escludere il disturbo autistico. Perciò alcuniautori hanno fatto riferimento ai disturbi del quadro autistico (Gillberg, 1990), altri all’autismo e ai disturbi del quadro autistico (Szatmari, 1992), ed altri ancora all’autismo e ai disturbi del suo spettro, o all’autismo e disturbi correlati. Wing talvolta si servì deltermine continuum autistico (Wing, 1989). Anche il concetto di autismo ed affezioni autistico-simili è usato come un ulteriore sinonimo (Steffenburg, 1991). Tutti questitermini di vasta accezione sono utilizzati più o meno nello stesso modo di “disturbi generalizzati dello sviluppo” (Gillberg, 2003).

Il manuale diagnostico al quale oggi si fa riferimento è il DSM-IV-Text Revision o DSM-IV-TR, pubblicato nel 2000 ed attualmente in vigore, in attesa dell’uscita del DSMV prevista per il 2012. Nel DSM-IV-TR il ‘Disturbo Autistico’ è inserito all’interno della categoria dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (termine utilizzato nella traduzione italiana del DSM-IV-TR, in luogo di ‘disturbi generalizzati dello sviluppo’, presente nella traduzione del DSM-IV-TR) che contiene: il Disturbo Autistico; il Disturbo di Asperger; il Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza; il Disturbo di Rett; il Disturbo Generalizzato dello Sviluppo non altrimenti specificato.

La Classificazione ICD-10 dell’O.M.S. (che definisce queste sindromi come Disturbi da alterazione globale dello sviluppo psicologico) prevede anche una categoria denominata ‘Autismo atipico’, in cui sono presenti soltanto una parte dei sintomi necessari per la diagnosi di autismo o l'età’ di esordio è successiva ai tre anni. Nel DSM-IV-TR questa categoria viene fatta confluire, nella categoria del Disturbo Generalizzato dello Sviluppo non altrimenti specificato. L’ICD10 contiene inoltre un’altra categoria definita Sindrome iperattiva associata a ritardo mentale e movimenti stereotipati.

I criteri diagnostici per il Disturbo Autistico (F84.0), secondo il DSM-IV-TR sono (p. 86-91):

A. Un totale di 6 (o più) voci da 1),2), e 3), con almeno 2 da 1), e uno ciascuno da
2) e da 3):

1. Compromissione qualitativa dell’interazione sociale, manifestata con almeno 2 dei seguenti:
a) marcata compromissione nell’uso di svariati comportamenti non verbali, come lo sguardo diretto, l’espressione mimica, le posture corporee e i gesti che regolano l’interazione sociale;
b) incapacità di sviluppare relazioni con i coetanei adeguate al livello di viluppo;
c) mancanza di ricerca spontanea nella condivisione di gioie, interessi o obiettivi con altre persone (per esempio, non mostrare, portare, né richiamare l’attenzione su oggetti di proprio interesse);
d) mancanza di reciprocità sociale ed emotiva.

2. Compromissione qualitativa della comunicazione come manifestato da almeno 1 dei seguenti:
a) ritardo o totale mancanza dello sviluppo del linguaggio parlato (non accompagnato da un tentativo di compenso attraverso modalità alternative di comunicazione come gesti o mimica);
b) in soggetti con linguaggio adeguato, marcata compromissione della capacità di iniziare o sostenere una conversazione con altri;
c) uso di linguaggio stereotipato e ripetitivo o linguaggio eccentrico;
d) mancanza di giochi di simulazione vari e spontanei, o di giochi di imitazione sociale adeguati al livello di sviluppo.

3. Modalità di comportamento, interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati, come manifestato da almeno 1 dei seguenti:
a) dedizione assorbente ad uno o più tipi di interessi ristretti e stereotipati anomali o per intensità o per focalizzazione;
b) sottomissione del tutto rigida ad inutili abitudini o rituali specifici;
c) manierismi motori stereotipati e ripetitivi (battere o torcere le mani o il capo, o complessi movimenti di tutto il corpo);
d) persistente ed eccessivo interesse per parti di oggetti.

B. Ritardi o funzionamento anomalo in almeno una delle seguenti aree, con esordio prima dei 3 anni di età: 1) interazione sociale, 2) linguaggio usato nella comunicazione sociale, o 3) gioco simbolico o di immaginazione.

C. L’anomalia non è meglio attribuibile al Disturbo di Rett o al Disturbo
Disintegrativo della Fanciullezza.

L’estrema variabilità di espressioni nel ‘continuum autistico’ ha risollevato peraltro l’altra questione, che da tempo immemorabile travaglia ogni nosografia: quella del rapporto tra approccio ‘categoriale’ e ‘dimensionale’, suggerendo ad alcuni che la diagnosi di autismo debba diventare sempre più una diagnosi dimensionale e non categoriale12 (Rapin, 2005). L’interminabile discussione nosografica continua; né può essere altrimenti, perché in essa si riflettono sia tutte le fondamentali questioni ancora aperte, sia i continui apporti della ricerca empirica (Barale e Ucelli, 2006).

 

Note

  1. Classificazione sistematica delle malattie.
  2. Il programma TEACCH, acronimo di “Treatment and Education of Autistic and Communication Handicapped Children”, non è, come generalmente si intende, una tecnica riabilitativa, ma unprogramma, innanzi tutto politico, che prevede la presa in carico totale e quindi la definizione di unprogetto di riabilitazione individuale nei vari contesti di vita del soggetto autistico (casa, scuola, sociale),con l'adozione delle tecniche più diverse ed al momento testate. Le prime soprattutto a basecomportamentista ma non solo. Ideato e progettato da Eric Schopler negli anni '60, venne sperimentatonella Carolina del Nord per un periodo di 5 anni con l'aiuto dell'Ufficio all'Educazione e dell'IstitutoNazionale della Sanità, dati i risultati estremamente positivi raggiunti, dagli anni '70 il programmaTEACCH è ufficialmente adottato e finanziato dallo Stato.
  3. Vedi Articolo “Cos’è l’autismo”.
  4. Con Eisenberg (1956), diventate cinque: mancanza di contatto affettivo, comportamento ossessivo e routinario, fascino per gli oggetti e buone abilità di motricità fine, mancanza di linguaggio o linguaggio non finalizzato alla comunicazione, buone capacità cognitive e di memoria.
  5. Gli altri sette criteri erano: apparente inconsapevolezza dell’identità personale, attaccamento patologico a particolari oggetti, strenua resistenza al cambiamento, reazione anormale a stimoli percettivi, ansietà acuta ed illogica, assenza o insufficiente sviluppo del linguaggio e strutture distorte della motilità.
  6. Il Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), noto anche con l'acronimo DSM, è uno degli strumenti dioagnostici per disturbi mentali più utilizzati da medici e psichiatri di tutto il mondo. La prima versione risale al 1952 (DSM-I) e fu redatta dall'American Psychiatric Association (APA).
  7. La diagnosi viene effettuata basandosi su di un corredo sintomatologico presente all'interno di una categoria preventivamente etichettata che definisce una particolare sindrome.
  8. Un approccio multiassiale comporta la valutazione su diversi assi, ognuno dei quali si riferisce ad un diverso campo di informazioni che può aiutare il clinico nel pianificare il trattamento e prevedere l'esito.
  9. Scompone gli stati psicopatologici in singole funzioni ciascuna delle quali può presentarsi in gradienti di intensità diversa all'interno di un continuum diagnostico, spettro.
  10. Gamma estesa di variazioni di un disturbo all’interno di un ‘continuum’ patologico.
  11. La classificazione ICD (International Classification of Diseases) è la classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati, stilata dall'Organizzazione mondiale della sanità (OMS-WHO), l’ICD- 10 è l'ultima di una serie di tentativi di classificazione ragionata, iniziata circa nel 1850.
  12. E' una delle controversie che animano il dibattito in psicopatologia e riguarda la natura dei costrutti psicopatologici. Per la diagnosi categoriale le sindromi sono entità statiche, a confini definiti. La valutazione dimensionale prevede la distribuzione del disturbo secondo variazioni quantitative distribuite in un continuum che va fino alla normalità.

 

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